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Condominio e locazione di parti comuni

La locazione delle parti comuni dell'edifici, quale particolare modalità di sfruttamento della loro utilità.
Avv. Alessandro Gallucci 

Un contratto che il condominio, sovente, stipula al fine di ottenere un miglior rendimento, in termini economici, delle parti comuni, è quello inerente alla locazione delle medesime.

L'ipotesi più ricorrente è quella della locazione dell'alloggio destinato al portiere in seguito alla cessazione del servizio di portierato; tale parte dell'edificio, salvo diversa indicazione del titolo, è da considerarsi in condominio in virtù del richiamo contenuto art. 1117 c.c.

Le norme codicistiche non s'interessano di questa particolare modalità d'uso delle cose comuni. L'unica norma di riferimento, sia pur indiretta, è il terzo comma dell'art. 1108 c.c. a mente del quale è necessario il consenso di tutti i partecipanti per gli atti di alienazione o di costituzione di diritti reali sul fondo comune e per le locazioni di durata superiore a nove anni.

L'art. 1108 c.c., è bene ricordarlo, è dettato in materia di comunione ma, in virtù del richiamo contenuto nell'art. 1139 c.c., è applicabile anche in materia di condominio. In questo contesto e prima di addentrarci nel merito del rapporto locatizio e delle sue peculiarità in considerazione del fatto che una delle parti contraenti è un condominio, è bene comprendere quale sia la natura della deliberazione di concessione in locazione.

Dalla norma appena citata pare che sia necessario il consenso di tutti i condomini per le locazioni ultranovennali. È per quelle di durata inferiore?

La dottrina, parlando della comunione - il discorso per analogia è estensibile anche al condominio - è certa nell'affermare che la locazione della cosa comune, per periodi di tempo inferiori a quello indicato dall'art. 1108 c.c., rientra nel normale godimento di tale bene in quanto è un mezzo di godimento del medesimo (Branca, Comunione Condominio negli edifici, Zanichelli, 1982).

Dello stesso avviso, e con specifico riferimento al condominio, è la giurisprudenza della Corte di Cassazione.

La conclusione del contratto di locazione di un appartamento condominiale è da considerarsi atto di amministrazione ordinaria, essendo possibile conseguire la finalità del "miglior godimento delle cose comuni" anche attraverso l'accrescimento dell'utilità del bene mediante la sua utilizzazione indiretta (locazione , affitto); ne consegue che, ove l'amministratore del condominio abbia locato il bene condominiale anche in assenza di un preventivo mandato che lo abilitasse a tanto, deve ritenersi valida la ratifica del suddetto contratto di locazione disposta dall'assemblea dei condomini con deliberazione adottata a maggioranza semplice (Cass. 21 ottobre 1998 n. 10446).

In sostanza il potere di addivenire alla conclusione del contratto e quindi alla nascita del vincolo contrattuale è posto in capo all'assemblea, che delibera senza particolari formalità ma anche in capo al legale rappresentante della compagine anche se il suo atto necessita sempre della ratifica dell'assise.

Se per locare il bene è necessario modificarne la destinazione d'uso? A rigor logica dovrebbe trattarsi d'innovazione finalizzato al maggior rendimento della cosa, come tale deliberabile con le maggioranze di cui agli artt. 1120-1136 c.c. Tuttavia l'introduzione nel dettato normativo dell'art. 1117-ter c.c. (Modificazione delle destinazioni d'uso) potrebbe rendere più gravosa la procedura deliberativa nel caso in cui per addivenirvi sia necessario modificare la destinazione d'uso del bene. L'uso del condizionale non è casuale.

Ai sensi del primo della succitata norma, infatti, "per soddisfare esigenze di interesse condominiale, l'assemblea, con un numero di voti che rappresenti i quattro quinti dei partecipanti al condominio e i quattro quinti del valore dell'edificio, può modificare la destinazione d'uso delle parti comuni".

Punto chiave della questione è il significato da attribuirsi alla locuzione interesse condominiale. Se con essa deve intendersi un interesse direttamente connesso alla gestione della compagine (es. trasformazione di destinazione d'uso per ottenere una sala riunioni) distinto dal maggiore rendimento economico del bene, allora non si pongono dubbi nel senso di una inapplicabilità alla fattispecie descritta dell'art. 1117-ter c.c.

Parti comuni in condominio

Il rapporto di locazione: profili generali

Il contratto di locazione, come qualsiasi altro negozio giuridico bilaterale, sorge per l'effetto dello scambio dei consensi; da una parte quello del locatore, dall'altra quello del conduttore.

La volontà del condominio sorge per effetto della deliberazione assembleare con la quale si manifesta l'intenzione della compagine di concedere una parte comune in locazione. In questo contesto, quindi, il voto dell'assise si può caratterizzare o come accettazione di una proposta o quale mandato all'amministratore a locare il bene alle condizioni stabilite nella deliberazione.

Com'è noto, l'assemblea può intervenire anche al fine di ratificare l'operato del proprio mandatario.

Si tratta altresì, d'un contratto a prestazioni corrispettive in quanto alla concessione in godimento del bene deve corrispondere il pagamento del prezzo pattuito. Quanto al conduttore non vi sono motivi per escludere che possa essere considerato tale anche un condomino.

In tal caso non si potrebbe parlare di compressione del pari diritto d'uso (art. 1102 c.c.) posto che i restanti condomini godono in modo indiretto di quel bene attraverso la riscossione del canone di locazione (cfr. Cass. 22 maggio 1982 n. 3143)

Il fatto che il succitato conduttore goda di un bene immobile ha posto il dubbio sulla natura del contratto: si tratta di contratto reale o ad effetti obbligatori? In dottrina, pur essendo state prospettate diverse tesi propendenti per l'una o per l'altra tesi, s'è giunti alla conclusione che la locazione è un contratto consensuale ad effetti obbligatori, da cui nasce un diritto personale di godimento a vantaggio del conduttore; inoltre è un contratto a prestazioni corrispettive perché a carico del conduttore, è posto, tra l'altro, l'obbligo di pagare un prezzo, detto canone o pigione (Caringella - De Marzo, Il contratto, Giuffré).

Alla stessa conclusione, sostanzialmente, è giunta anche la giurisprudenza (cfr., ex multis, Cass. 14 luglio 2011 n. 15443).

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